Anticipare, dal latino capere, prendere, più il prefisso anti-.
Prendere prima, quindi.
Più o meno consapevolmente lo facciamo ogni giorno. Quando camminiamo per strada non ce ne accorgiamo ma la vista, il tatto e l’udito registrano tutto e rapidissimamente elaborano le informazioni in modo da evitare gli ostacoli pure senza starci a pensar troppo su.
Quando evitiamo una buca, anticipiamo il momento in cui ci finiremmo dentro col piede. È questione di un lampo. Soprattutto è questione di esperienza, che allena il cervello a prevedere le conseguenze a partire da un certo numero di elementi (anche per questo i bambini piccoli teneramente barcollano e, meno teneramente, cascano spesso). E non capita solo mentre si cammina, si fa un tackle perfetto a calcio, una stoppata a basket, oppure una mamma o un papà pigliano all’ultimo istante il pargoletto prima che sbatta la testa. Succede pure quando sappiamo già cosa qualcuno sta per dire o prevediamo come andrà a finire qualcosa. Esperienza. E allenamento.
Il concetto di anticipazione, dunque, è strettamente legato al tempo. È il presente che ha una visione sul futuro grazie a ciò che ha imparato dal passato. È la coscienza di ciò che sarà o potrebbe essere. La coscienza di qualcosa che, nel momento in cui lo si anticipa, vive ancora nel regno delle possibilità, è ancora trasparente, un fantasma.
Sta tutto qua (“tutto qua” si fa per dire) il concetto dell’installazione che Lexus ha portato alla design week milanese, istallazione che porta il titolo di An Encounter with Anticipation ed è stata realizzata da un duo di designer—Andrea Trimarchi e Simone Farresin, meglio conosciuti come Formafantasma—che fin dal nome ha sempre giocato sul ritrovare il risultato finale (la forma che inizialmente è solo un fantasma, appunto) solo dopo aver lavorato e sperimentato sui materiali.
Per realizzare la loro opera, Trimarchi e Farresin sono volati fino in Giappone a cercare quegli elementi dai quali poter trarre le loro anticipazioni su ciò che sarà, prendendo spunto dalla storia dell’azienda (ecco il passato) e dalla concept car che ogni anno Lexus presenta al Fuorisalone, in questo caso la LF-FC a idrogeno (ecco il futuro).
Da quel viaggio in Oriente sono tornati portando a Milano la loro personalissima interpretazione e regalandoci un presente in qualche modo “informato” su quel che verrà, intrecciando inoltre il loro lavoro con quello dello chef Yoji Tokuyoshi che, come vedremo, è riuscito a dar corpo (e sapore) al concetto sotto forma di cibo.

(foto: Lexus)
Sono in tutto tre le aree dell’installazione, circondate da pareti ispirate allo shōji (le tradizionali porte e divisori giapponesi realizzate utilizzando carta washi) che hanno tra l’altro un senso che va ben oltre il mero omaggio al paese del marchio Lexus: la carta dei shōji permette infatti di guardare attraverso di essi, ma soltanto parzialmente: si vedono appena le ombre di chi sta al di là, dando modo però di anticipare (ed ecco il concetto che ritorna) l’arrivo di un ospite per poterlo così accogliere al meglio.
La prima area, accanto alla sala che ospita i progetti dei finalisti del Lexus Design Award 2016 (che, pure, aveva come tema quello dell’anticipazione, ma di cui parlerò in un altro post), è caratterizzata da una serie di sgabelli dalle linee minimali e dal colore cangiante—in base alla luce e a come ti muovi a volte sembrano blu, altre volte grigio scuro, quasi nero, e quando credi di aver capito la tinta precisa, quella sfugge (di nuovo, come un fantasma).
Sgabelli che tra l’altro sono stati verniciati esattamente con lo stesso processo utilizzato per il concept dell’auto, a sua volta ispirato dalla laccatura tradizionale giapponese.
Ma è la seconda area la più sorprendente, quella che oltre a me ha lasciato a bocca aperta tutti i visitatori durante la giornata dedicata alla “preview” per la stampa: ciascuno di noi si aspettava di vedere la concept car “in carne e ossa” e invece c’era—guarda un po’—il suo “spirito”, una sorta di ologramma analogico, concreto.
Un paradosso, insomma, perché l’auto non c’è… ma c’è. Nel senso che non è una proiezione ma un fittissimo insieme di fili bianchi dipinti di blu che ingannano l’occhio e ti fanno credere di vedere una macchina tridimensionale tremolante e sfocata.
Qua però le parole non bastano. Bisogna vedere per credere.

L’idea dell’ologramma, seppur tangibile, non è ovviamente casuale. Tra le meraviglie della concept car LF-FC c’è infatti anche una console olografica che permette di regolare l’impianto audio e il climatizzatore.
I fili, invece, interamente dipinti a mano, sono un omaggio alla storia dell’industria tessile giapponese.
«Quando abbiamo visitato il Giappone» spiegano Trimarchi e Farresin «Lexus è il marchio premium del gruppo Toyota, e siamo rimasti impressionati quando abbiamo scoperto che agli inizi della sua storia Toyota produceva macchine per la filatura e la tessitura. L’abbiamo trovata una cosa molto d’ispirazione perché dimostra come la conoscenza possa evolvere».
Per vedere invece come hanno lavorato su questa “installazione nell’installazione”, ecco un video.
Infine l’ultima area, la più grande, che ospita un gigantesco sistema di luci cinetiche alimentate da una tecnologia a idrogeno con celle a combustibile, che sfrutta lo stesso principio del motore della LF-FC.
I cerchi, gli archi e le barre delle luci, ciascuno col suo moto perpetuo, sembrano dei metronomi che danzando scandiscono il tempo, duplicandosi su di una una piattaforma riflettente rosa pastello (che sembra la superficie di un lago—tieni a mente l’acqua, perché presto tornerà) e dando l’illusione di poter afferrare al volo, contemporaneamente, cioè che è stato, ciò che è e ciò che sarà.

(foto: Frizzifrizzi)
Sull’acqua—che è vita, che è trasparente che è l’unica emissione della concept car ma che è anche la “nonforma” per eccellenza visto che prende di volta in volta quella del suo contenitore—si gioca anche l’intervento dello chef Tokuyoshi, che in campo gastronomico è un vero maestro del pensiero astratto (a sua volta ha avuto un grandissimo maestro, Massimo Bottura, con cui ha lavorato per ben 9 anni, fino al 2014).
Accanto a un’ampolla che, goccia dopo goccia, va a disegnare cerchi concentrici dentro a un piatto che sembra un laghetto pieno di ninfee, scopro che in realtà quelle sono foglie di nasturzio, sulla cui superficie s’appoggiano minuscole sfere dal sapore pungente preparate con frutti di bosco e umeboshi—un condimento tipico giapponese a base di prugne salate.

Ma la vera magia, per il palato come per gli occhi, è in Transparent, il secondo piatto dello chef, che in questo video spiega come ha lavorato all’intero progetto e che ha ideato una sfera di gelatina preparata con agar, mandarino, zucchero e glucosio. Una sfera fantasma, visto che scompare e riappare.
Adagiata dentro a una tazzina di porcellana di Arita (piccola parentesi storica: Arita è il luogo in cui, 400 anni fa, è nata la ceramica giapponese), la sfera ha esattamente lo stesso colore del brodo caldo di pesce che viene poi versato sopra di essa: una volta immersa, scompare. E non appena bevi il brodo, ecco che ritorna, pronta per “esplodere” in bocca con tutto il suo sapor d’agrumi.
«Scomparendo e riapparendo, secondo me è come il pensiero dell’uomo», dice del suo piatto Tokuyoshi.
Pensiero che—aggiungo io—è lo strumento più potente che abbiamo per giocare d’anticipo.

sotto, una serie di tazzine con dentro le sfere di gelatina immerse a vari livelli
(foto: Frizzifrizzi)







